PLURALI/Cristina Galasso/Settore Comunicazione Cesvot

Lei ama definirsi autore di “cinema della realtà”:
che cosa intende?

Il cinema è una scienza e un’arte che ha un unico approdo:
raccontare. Io racconto la realtà, porto sulla scena
una storia vivendo con le persone protagoniste di quella
realtà. Insomma, per me, è innanzitutto relazione. Ed
è necessario essere consapevoli che può essere anche
una relazione di potere: chi racconta ha una grandissima
responsabilità perché può esercitare un potere mistificatorio
e far credere di offrire la verità.

I video o i cortometraggi possono raccontare
temi sociali e di attualità meglio di altre forme
espressive?

Io preferisco parlare di videodocumentazione che è
osservazione della realtà ed è cosa diversa dal cortometraggio
che può essere anche manipolazione ed uso
strumentale della realtà.
Sì, sicuramente la videodocumentazione può raccontare
la realtà, le questioni sociali in modo efficace ma solo
se chi racconta ha etica, umanità, sensibilità e volontà
di vivere e condividere la realtà che racconta. E quel
racconto deve avere un’utilità pubblica e produrre consapevolezza.
Quando lavoro mi sento al servizio della realtà, cerco di
offrire strumenti ‘attivi’ di comprensione e consapevolezza.
Non ho l’obiettivo di produrre un’opera estetica
ma di intraprendere un percorso di ricerca che aiuti a capire
la realtà, ad avvicinare mondi solo apparentemente
lontani…

Quali sono i ‘vizi’ più comuni dei cosiddetti “video
sociali”?

Sicuramente l’omologazione, la subalternità, la mancanza
di criticità.
È una questione soprattutto culturale. Un video che non
racconta la realtà e i suoi protagonisti in modo critico,
con le sue luci e le sue ombre ma si omologa ai format
televisivi o agli spot pubblicitari proponendo messaggi
autoreferenziali e celebrativi, non serve a nulla.

In che modo il mondo del volontariato può
usare lo strumento audiovisivo con efficacia e
originalità?

È necessario innanzitutto che la comunicazione audiovisiva
diventi una scelta strategica che miri a parlare ‘dentro’
e ‘fuori’ e a rafforzare l’identità dell’associazione.
Le associazioni dovrebbero intraprendere un percorso
di consapevolezza e di “educazione dello sguardo”. E il
Cesvot potrebbe fare molto in questo senso, aiutandole
a capire cosa e come raccontare, al di là di stereotipi.
Occorre, infatti, individuare un plot narrativo ed essere
capaci di gestire quella relazione che inevitabilmente si
viene a creare tra chi è dietro e chi è davanti la telecamera.
Una relazione alla pari dove non si deve avere paura
di mettersi in gioco. Anche i volontari, i dirigenti delle
associazioni devono acquisire consapevolezza della
propria attività, della realtà che vivono. Cosa voglio
raccontare, perché, quale utilità ha per me e per gli altri?
Queste sono le domande che ci dobbiamo fare. Solo
così il video è anche strumento di lavoro e di crescita
interna, che dura nel tempo. E poi dovrebbe veicolare
un messaggio ‘universale’ che parli cioè a tutti, ma soprattutto
deve produrre cambiamento: in chi guarda, in
chi racconta, in chi è protagonista di quel racconto.